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La morte bianca

Gran parte del fronte della guerra si trova localizzato in territorio montano, dall’alto Isonzo, all’altipiano di Asiago, al Grappa, dal Fronte dolomitico fino ai ghiacciai dell’Adamello e dell’Ortles; spesso si superano i 2000 m di quota e in alcuni casi i 3000 m. Si combattono le battaglie più alte della storia dell'Europa e sulle alte cime i soldati dei due schieramenti sono costretti ad abitare per anni. "Un nuovo popolo abitò la parte orientale dell'arco alpino, scavò caverne, trincee, camminamenti; costruì strade, ponti, fortificazioni e rifugi; fece saltare con le mine alcune cime; alterò la fauna e la flora; si spinse a vivere nei ghiacciai", così scrive Alberto Monticone.
Il modo di combattere è sicuramente molto diverso da quello sul Carso; nella maggior parte dei casi non sono grandi masse a muoversi: al massimo battaglioni, più spesso compagnie quando non sono semplici pattuglie che devono conquistare postazioni ben armate e annidate in posizioni rese imprendibili già solo dalla morfologia del terreno. Spesso vengono compiute vere e proprie imprese alpinistiche, si salgono pareti ritenute inscalabili, si portano cannoni e riflettori in cima alle montagne più elevate, si costruiscono ricoveri nei posti più impensabili.

In questo ambiente i due eserciti contendenti hanno un nemico in comune, la montagna stessa. Le condizioni di vita oltre i duemila metri, soprattutto d’inverno, sono proibitive e, come se non bastasse, gli inverni 1915/16 e 1916/17 sono stati i più freddi del periodo 1900-1940. La neve poco sopra i 2000 m ha iniziato a cadere a metà settembre e l’ultima si è sciolta a fine luglio. Il 13 dicembre 1916 sul Monte Piana la neve raggiunge i 7 metri di altezza e la temperatura di -42°C. Con grandi accumuli di neve diventano frequenti le valanghe che, con la loro furia, travolgono baracche e pattuglie in transito sotto le pareti. Inizia così a diventare tristemente famosa l’espressione di “morte bianca”, con la quale si identificano tutte quelle morti dovute a valanghe o congelamento. Spesso ci sono delle tregue, tra i contendenti, per poter far fronte a questo nemico comune.
Una giornata particolare è da ricordare sul fronte alpino: il 13 aprile 1916, il venerdì “bianco”; in questa giornata, da una parte e dall’altra, si sono registrate 10.000 vittime della Morte Bianca, sulla Marmolada muoiono 300 soldati per una sola valanga caduta sulle baracche del Gran Poz.
Nell’inverno sul 1917 sono circa 20.000 i morti a causa di valanghe.

Dopo un primo periodo sostanzialmente mite e con scarse precipitazioni le condizioni meteo cambiano drasticamente nel febbraio del 1916 con continue ed abbondanti nevicate che proseguono fino ad aprile inoltrato e si ripresentano addirittura fino a giugno. La coltre di neve che si accumula fino a bassa quota è particolarmente spessa finché non viene raggiunto il punto di rottura. Accade così che il 9 marzo si staccano ovunque numerose valanghe di ogni dimensione, solo nel tratto di fronte tra la Cima d'Asta e la val Cordevole sono almeno 11 le slavine che colpiscono reparti italiani causando più di 470 vittime tra militari e civili oltre a numerosi danni. Una di queste slavine colpisce anche un Alpino piacentino, si tratta di Franscesco Zurla di Travo della 5^ batteria di artiglieria da montagna, gruppo Torino-Aosta, 1° Reggimento. Il fatto avviene nei pressi di Cima Valsorda, a Prade in Val Vanoi. La valanga probabilmente si stacca dalle pendici del monte Coston, propaggine di Cima Folga, e scende su Zortea o nella val Zortei. La 5^ batteria era in quel periodo dislocata sulla Cima di Valsorda, un caposaldo fortemente fortificato a monte di Prade e Zortea, e sarà protagonista delle vicende belliche tra la Cima d'Asta e il Monte Cauriol. Nel cimitero civile di Prade esiste ancora oggi un monumento nel quale si ricorda l'evento ed è indicato anche il nome di Franesco Zurla.

Il 13 dicembre 1916 una valanga uccide 95 artiglieri del 1° Rgt. Art. da Montagna, 3^ Batteria, sotto il Castelletto della Tofana, tra loro quattro piacentini: Domenico Carini (Ferriere), Giovanni Donelli (Monticelli d'Ongina), Battista Mainardi (Castel San Giovanni, foto), Giovanni Toscani (Piacenza). La valanga smuove più di 4 milioni di metri cubi di neve seppellendo la strada delle Dolomiti, per permettere il passaggio sarà necessario scavare una galleria nella neve accumulata che in quel tratto raggiunge uno spessore di 18 metri. Le vittime vengono Mainardi Battistarecuperate solo nella primavera successiva e sepolte in un apposito cimitero, detto "della Valanga" (vedi foto da Giacomel), costruito a Cianzopè, sulla strada che da Cortina d'Ampezzo sale al Passo Falzarego, e successivamente traslate nell'Ossario del Pocol.

Luciano Viazzi riporta il racconto di un superstite della batteria che descrive il salvataggio del sergente Moscheri. "Ai piedi del Castelletto ormai conquistato, le baracche degli artiglieri scomparivano sotto l'enorme strato di neve e sulla strada delle Dolomiti i muli affondavano fino alla testa e non distinguevano più la via diritta. Alla vigilia di Natale neppure i reparti dell'artiglieria, benché più vicini alle salmerie, avevano ricevuto i viveri e il sergente Moscheri e tre altri uomini, buoni sciatori come lui - in mancanza di sci - si erano adattati alle scarpe due pezzi di tavola e con tali attrezzi, del tutto rudimentali, erano riusciti a raggiungere Rumerlo portando indietro alcuni pacchi natalizi ed un vistoso bottiglione di Clinton. C'era un pacco anche per il sergente Moscheri: la sua mamma, nello sperduto villaggio ai piedi delle Marmarole, aveva lavorato per lui un soffice panciotto di lana e preparato anche il «zelten », una specie di panettone schiacciato, riempito di fichi, uva passa, noci e pinoli, come si usa fare in certi paesi del Cadore in occasione del Natale. La povera vecchietta aveva messo nel pacchetto anche un'immagine sacra, la «Madonna della Valanga », scrivendovi sotto con ingenuità tutta montanara: «Questa ti salverà dalle disgrazie ». Il sergente non poté fare a meno di mostrare l'immagine ai commilitoni, i quali vedendo una Madonna al posto della morosa che s'aspettavano di scoprire, si fecero delle matte risate. Ma il sergente nascose con profonda devozione quell'immagine nella tasca interna del panciotto, dopo tutto gli ricordava la sua vecchia mamma lontana. E mentre i compagni alimentavano con buona legna di larice, gocciolante di resina, la piccola stufetta di ghisa che spesso s'arroventava; minacciando il legno delle pareti, e allineavano vicino al fuoco i bicchieri colmi di vino gelato, il Moscheri raccontò in poche parole la leggenda di quella « Madonna della Valanga» cui erano devoti al suo paese. Anche là, le valanghe non erano rare, né d'inverno quando la neve s'accumulava per vari metri né in primavera quando s'ammassava fin presso le case. Da tempo immemorabile esisteva un piccolo santuario ritenuto miracoloso: la cappelletta si ergeva proprio sul pendio più battuto, al riparo di un dente di roccia e la sacra immagine era coperta da ex voto per grazie ricevute. Il fatto miracoloso era accaduto, molti anni addietro, quando un legnaiuolo del paese se ne stava con la moglie ed una figlioletta, raccogliendo legna nel bosco sulle pendici di questa montagna. Lo scroscio formidabile della valanga, che scendeva proprio lungo la china dove si trovavano i tre disgraziati, fece loro comprendere che non vi era più scampo, ed allora alzarono le mani al cielo gridando: Santa Maria prega per noi! In quel mentre, la valanga che incombeva ormai a poche decine di metri sopra di loro, si divise in due, precipitando a valle con fragore di tuono, ma lasciando i tre completamente illesi. In memoria di questo fatto miracoloso, la popolazione volle erigere in quel punto una piccola chiesetta, dove ancor oggi le valanghe che scendono dalla montagna si rompono contro il sasso dividendosi in due fiumane di neve ai lati. Cosicché il piccolo santuario ha sempre resistito a tutte le frane e le valanghe che si sono abbattute su quel valloncello per più di cento anni. Nel mentre il sergente raccontava questa storia, gli altri prepararono un mazzo di carte per vegliare almeno sino a mezzanotte, per scolarsi il pintone di clinto. Dopo un'ultima ispezione ai soldati che chiacchieravano sommessamente sulla paglia delle loro cuccette e data un'occhiata ai muli intenti a masticare con olimpica lentezza il fieno rimasto nei cantucci delle mangiatoie, il sergente ritornò presso i suoi compagni: «Quanta neve fuori! Se la continua a venir giù in questo modo, addio rancio di Natale! Scatolette di carne e galletta ci toccherà mangiare». Ma i giocatori erano distratti. L'uno raccontava di altre grandi nevicate a Sappada, dove alla mattina a stento si poteva uscire dalle finestre del primo piano, l'altro ricordava episodi di grosse valanghe e tutti pensavano che in quel momento anche nelle loro case lontane si vegliava, aspettando la venuta di Gesu Bambino. Verso la mezzanotte, Moscheri si avvicinò alla stufa che già si raffreddava e vi gettò alcuni piccoli tronchi di pino. Stava accendendo un pezzetto di carta alla fiamma della candela, quando udì il rombo cupo e vibrante della valanga. Parve che persino il suolo fosse scosso da un terremoto e nessuno ebbe il tempo di rendersi conto di cosa stava succedendo. Le baracche degli artiglieri, prese fra l'enorme pressione della neve in moto, si schiacciarono come scatole di fiammiferi sotto un rullo compressore. Gli sciatori di soccorso, inviati la mattina dopo sul luogo del disastro, riuscirono a recuperare poche salme e qualche carogna di mulo. Ma ad un certo punto i soccorritori vennero richiamati da grida soffocate. Era mai possibile che in quel tragico sconvolgimento, già livellato dalla nuova neve, ci fosse qualcuno ancora vivo? Gli sciatori si avvicinarono perplessi al luogo dove sembrava provenissero le grida e scorsero un tubo di stufa che affiorava. Proprio da quel tubo provenivano le grida disperate di aiuto. Rimossa febbrilmente la neve, ad una profondità di circa quattro metri fu trovato il sergente Moscheri, un po' malconcio ma ancora vivo. Egli doveva la sua salvezza al caso fortuito, miracoloso, di essersi trovato col viso presso l'estremità del tubo di stufa che gli aveva permesso di respirare. Cosi la <<Madonna della Valanga» ebbe un altro ex voto!"

A causa della spessa coltre di neve e di un'epidemia influenzale si deve rimandare di qualche giorno l'operazione sull'Adamello che viene così fissata per il 25 maggio 1918. Si devono conquistare i Monticelli e il Presena, a oltre 3000 m di quota. All'imbrunire del 24 inizia l'efficace tiro dell'artiglieria, mentre durante la notte si effettua la marcia dei reparti destinati all'azione: si tratta dei battaglioni Edolo, Monte Granero e Pallanza che salgono da Sozzine alla Cresta Castellaccio-Lagoscuro con un forte maltempo. La colonna di Alpini, per salire in quota, dopo una mulattiera ha preso un canalone che arrivava al Prà de l'Or e si cerca di stare sulla destra del canale addossati alle pareti. Dove il canalone sale a zig-zag si sente un rumore spaventoso, un "uh, uh" mescolato a scoppi e tuoni. I primi alpini della colonna gridano ai loro compagni che stanno al di sotto affinché riescano a mettersi in salvo sotto alle rocce. Incomincia a passare la valanga e si sente provenire dal basso il rumore del ferro contro le pietre e le rocce: sono le armi e gli equipaggiamenti degli Alpini investiti da neve e sassi, si sta infatti portando in quota tantissimo materiale per l'azione. Subito si sentono le urla di aiuto e i superstiti si precipitano a portare il loro soccorso. È un vero disastro, la neve è diventata scura a causa di corpi di uomini e muli, cassette di munizioni, zaini, rotoli e armi disperse. Mentre si cerca di mettere in salvo i feriti una nuova valanga si stacca dalla punta del Lagoscuro e del Paradiso con un fronte di cinquecento metri travolgendo qualunque cosa si trovi sul suo percorso. Tra le vittime della valanga c'è anche Giovanni Alberici di Borgonovo V.T., Alpino della 282^ Compagnia del Battaglione Pallanza, 4° Reggimento. Tale compagnia non potrà partecipare all'azione perché viene quasi completamente annientata dalla valanga: le perdite della 282^ ammontano infatti a 109 Alpini.

Muoiono inoltre in seguito di caduta di valanghe Luigi Polledri (Farini), Carlo Antonio Sozzi (Pecorara) e Pietro Toscani (Ferriere).


 

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Bibliografia

- De Dorigo Santo -  Quando dal Tesino all'Agordino imperversò la Morte Bianca. Note sulle valanghe del 9 marzo 1916 - In Aquile in Guerra 2012 - Società Storica della Guerra Bianca

- Ficini S. - Fra cielo e nevi eterne, forti di giovinezza e d'ardire - Società Storica della Guerra Bianca

- Giacomel Paolo - Arrivederci. Aufwiedersehen Cortina d'Ampezzo - 1915.1939. cimiteri di guerra - Regole d'ampezzo - Parco delle Dolomiti d'Ampezzo

- Musi Silvia - VALANGHE e FRANE: le vittime - http://www.pietrigrandeguerra.it/voci-e-volti-dal-fronte-bis/santa-fosca-bl-27-maggio-1917/

- Piacenza in Grigioverde 1915 - 1918

- Regione Lombardia – Mondo popolare in Lombardia – 9 – La grande Guerra – Operai e contadini lombardi nel primo conflitto mondiale

- Viazzi Luciano - Le Aquile delle Tofane 1915-1917 - Mursia